Il
lavoro della Pasetti, che è una rielaborazione della sua tesi di dottorato, va
ad arricchire il catalogo della prestigiosa collana diretta da Alfonso Traina Testi e manuali per l’insegnamento universitario
del latino.
Oggetto
dell’indagine sono gli echi plautini nel lessico e nello stile di Apuleio: si
tratta di una questione che affonda le proprie radici nell’età umanistica,
quando Plauto ed Apuleio erano sistematicamente studiati in maniera comparativa
e non di rado il testo del sarsinate veniva usato per sanare alcuni guasti in
quello del madaurense.
Il saggio si apre con un’introduzione
sintetica ma ben argomentata (pagg. 7-10), nella quale si dà conto della
materia trattata, della storia degli studi, della metodologia di ricerca
adottata e, naturalmente, delle finalità scientifiche perseguite. Fanno seguito
tre sostanziosi capitoli, che costituiscono il corpo centrale del saggio, al
termine dei quali una bibliografia ricca ed aggiornata offre un valido sussidio
a quanti vogliano intraprendere ricerche di carattere linguistico-stilistico su
Apuleio e Plauto. Molto utile è anche l’ultima sezione del saggio, riservata agli
indici: accanto a quelli degli autori citati (prima gli antichi e poi i
moderni), vi è un ricchissimo indice analitico, che rappresenta uno strumento
di consultazione rapido e agevole per quanti si occupano di diminutivi, avverbi
in –tim e composti nominali in
Apuleio e/o in Plauto: sono proprio queste, infatti, le tre categorie lessicali
sulle quali la Pasetti incentra il prorio lavoro di ricerca e sulle quali verte
l’intera trattazione.
L’analisi dei diminutivi in Apuleio occupa
il primo capitolo. La studiosa osserva che, mentre in età classica si registra
una presenza limitata e sorvegliata di tali lessemi attinti al sermo cotidianus, essi rappresentano
invece una peculiarità della lingua d’età arcaica e di quella del periodo arcaizzante.
Nel lessico apuleiano, in particolare, i diminutivi si incontrano con elevata
frequenza, perché contribuiscono spesso ad instaurare un certo parallelismo
lessicale e a stimolare la creatività linguistica dell’autore. Il madaurense, riproponendo
lessemi già presenti nella lingua di Plauto, riprende la spiccata propensione
del commediografo per l’uso dei diminutivi. A parere della Pasetti «se in
alcuni casi la ripresa apuleiana si spiega sulla base di un’affinità
contestuale o di un preciso richiamo stilistico […], in altri essa sembra
dettata da esigenze puramente formali, legate per lo più alla funzionalità
fonica o retorica del significante» (pag. 22).
Successivamente la Pasetti passa in rassegna i diminutivi
presenti unicamente in Apuleio e in Plauto, con lo scopo di capire «fino a che
punto sopravviva nel testo apuleiano la memoria della loro origine» (pag.14).
L’analisi è condotta su breviculus, corculum, dicaculus, formula, hamulus, morsiuncula, pulvisculus/-um, saepicule, scitulus, turbel(l)a, unguiculus.
Segue l’analisi dei diminutivi apuleiani modellati su
quelli plautini, vale a dire quelle neoformazioni apuleiane il cui modello
plautino non è sempre direttamente recuperabile (in ordine di trattazione: bellule, ampliusculus, posticula, tantillulus, pullulus, palumbulus, mellitulus, unctulum).
L’indagine si sofferma su alcuni diminutivi di origine
plautina che «pur non essendo recuperati esclusivamente da Apuleio, risultano
comunque interessanti […] in quanto, designando oggetti o personaggi
caratteristici sia del romanzo che della commedia, sono rivelatori di uno stretto
rapporto tra i due generi» (pag. 27). La trattazione riguarda servolus, sportula, adulescentula,
aetatula, diecula, mensula, re(s)cula, uxorcula.
A proposito dei procedimenti adottati da entrambi gli
autori nell’uso dei diminutivi che costituiscono un particolare ethos comico, la studiosa parla di
«comicismi più che di plautinismi» (pag. 31), poiché Apuleio mutua da Plauto
non soltanto i lessemi, ma anche i procedimenti di utilizzo degli stessi, come
per esempio il diminutivo continuato e l’enumeratio;
molto amati da Apuleio, inoltre, appaiono i diminutivi afferenti al lessico
tecnico.
Il ricorso al diminutivo da parte di Apuleio assolve
ad una triplice funzione: in primo luogo, conferendo al testo un marcato carattere
fonico, esso lo rende simile alla poesia, in secondo luogo, rappresenta una
spia del sermo comicus e, in terzo
luogo, costituisce l’elemento fondante della Kunstprosa. Tuttavia, a caratterizzare la lingua di Apuleio,
accanto ad una marcata ripresa del lessico e dei procedimenti fonico-stilistici
di Plauto, concorrono numerose influenze di altri autori arcaici, individuate
alle pagg. 36-48.
Al termine del primo capitolo tre tabelle offrono la
schedatura in ordine alfabetico dei diminutivi presenti negli opera omnia di Apuleio con le relative
occorrenze, le attestazioni dei diminutivi rintracciati in tutte le commedie
plautine e una lista dei diminutivi comuni ad entrambi gli autori.
Nel secondo capitolo oggetto di indagine sono gli
avverbi in –tim che, intesi come una
categoria lessicale a sé stante, costituiscono un ulteriore punto di contatto
tra la lingua di Apuleio e quella di Plauto. Tuttavia, prima di procedere ad
un’analisi di tipo comparativo tra i due autori è affrontata la questione
dell’origine di tali avverbi: si tratta senza dubbio di arcaismi, che proprio
in virtù della loro patina arcaica, vengono immancabilmente ripresi dagli
autori del periodo arcaizzante. La Pasetti si dedica, quindi, all’analisi di
tali lessemi nella lingua di Plauto, distinti in denominativi e deverbali. Tra
i denominativi si distinguono quelli di senso distributivo significanti “a
pezzi”, “in briciole” (articulatim, assulatim, frustillatim, offatim). Nel sermo plautino «gli avverbi in –tim
sono frequentemente inseriti in catene allitteranti, mentre non vengono mai
sfruttati fonicamente per la loro terminazione» (pag. 74). Successivamente
vengono passati in rassegna gli avverbi in –tim
presenti nella lingua apuleiana, tra i quali si annoverano numerose
neoformazioni (aggeratim, agminatim, capreolatim, coaceruatim, congestim, cunctim, discretim, fistulatim, laciniatim, granatim). Contrariamente a Plauto, Apuleio
sfrutta tali lessemi per creare effetti fonici, aggregandoli frequentemente in
coppie omoteleutiche e isosillabiche. I casi di condivisione tra Plauto ed
Apuleio degli avverbi in –tim vengono
circoscritti a quattro (adfatim, efflictim, examussim e guttatim); tuttavia
sono passate in rassegna anche altre tracce del modello plautino, differenti
dal semplice recupero di lessemi dalla provenienza indubbia.
Il terzo ed ultimo capitolo del saggio concerne i
composti nominali, un tipo di lessema originariamente estraneo alla lingua
latina ma ben presente in quella greca.
Segue una breve sezione dedicata ai composti nominali
utilizzati da entrambi gli autori, ma attestati anche altrove, e subito dopo
oggetto di indagine sono i composti nominali comuni ai due autori e attestati
unicamente nelle loro opere (cordolium e
opiparus). L’attenzione si sposta,
quindi, sulle forme peculiari della dictio
comica adoperate da Apuleio (morigerus, furcifer, sacrilegus e versipellis);
infine, vengono passate in rassegna le neoformazioni apuleiane ispirate a
modelli plautini e si procede all’analisi dei composti che Apuleio attinge dalla
Dichtersprache.
Le pagg. 136-147 sono occupate da riflessioni di
carattere conclusivo in merito alle analogie e alle differenze nell’utilizzo
dei composti nominali in Plauto e in Apuleio. Il materiale raccolto viene
organizzato in due tabelle di occorrenze: la prima include i composti nominali
reperiti nelle opere apuleiane, la seconda quelli rintracciati nel tessuto
linguistico delle commedie plautine.
Le conclusioni generali (pagg. 159-163), oltre a ribadire
i criteri metodologici adottati, sintetizzano gli obiettivi raggiunti nel corso
della ricerca: dall’analisi comparativa della lingua di Apuleio e Plauto, sulla
base delle tre categorie lessicali inizialmente scelte dall’autrice del saggio,
sono emersi differenti livelli di fruizione del modello plautino da parte di
Apuleio. Il primo livello fruitivo interessa semplicemente la ripresa
semantico-lessicale da parte di Apuleio nei confronti di Plauto; il secondo
livello riguarda, invece, quei vocaboli che evocano ambienti e situazioni
propri della commedia, ma non sono direttamente attestati. Un posto a sé stante
occupano i neologismi coniati dal madaurense sui modelli plautini. Ad ogni
modo, «un aspetto comune alle diverse modalità di fruizione è […] il privilegio
costantemente accordato da Apuleio alla dimensione fono-stilistica» (pag. 160).
Il lavoro della Pasetti, condotto con rigore e metodo,
costituisce un tassello importante nella storia degli studi sull’argomento. Infatti,
se si eccettua la dissertazione ottocentesca di Desertine [H. Desertine, De Apulei studiis Plautinis, diss. Nymwegen
1898], che affronta la questione dei rapporti linguistici tra Apuleio e Plauto,
ma si risolve in una mera schedatura di lessemi decontestualizzati, e si
escludono il lavoro di Callebat [L. Callebat, Sermo cotidianus dans les Métamorphoses d’Apulée, Caën 1968] e pochissimi studi inerenti all’influsso degli
arcaismi plautini sull’opera apuleiana (pag. 9), non molto si è detto sul
complesso rapporto tra Apuleio e Plauto. Alla Pasetti va riconosciuto soprattutto
il merito di essere andata oltre la ricerca delle semplici riprese linguistiche
di Plauto da parte di Apuleio: la studiosa mette in luce negli scritti di
Apuleio il recupero dell’ethos comico
plautino e vi rintraccia i complicati rapporti allusivi con l’opera di Plauto.
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