venerdì 20 luglio 2012

Recensione a Lucia Pasetti, Plauto in Apuleio, Pàtron editore, Bologna 2007, pp. 227.





Il lavoro della Pasetti, che è una rielaborazione della sua tesi di dottorato, va ad arricchire il catalogo della prestigiosa collana diretta da Alfonso Traina Testi e manuali per l’insegnamento universitario del latino.
         Oggetto dell’indagine sono gli echi plautini nel lessico e nello stile di Apuleio: si tratta di una questione che affonda le proprie radici nell’età umanistica, quando Plauto ed Apuleio erano sistematicamente studiati in maniera comparativa e non di rado il testo del sarsinate veniva usato per sanare alcuni guasti in quello del madaurense.   
         Il saggio si apre con un’introduzione sintetica ma ben argomentata (pagg. 7-10), nella quale si dà conto della materia trattata, della storia degli studi, della metodologia di ricerca adottata e, naturalmente, delle finalità scientifiche perseguite. Fanno seguito tre sostanziosi capitoli, che costituiscono il corpo centrale del saggio, al termine dei quali una bibliografia ricca ed aggiornata offre un valido sussidio a quanti vogliano intraprendere ricerche di carattere linguistico-stilistico su Apuleio e Plauto. Molto utile è anche l’ultima sezione del saggio, riservata agli indici: accanto a quelli degli autori citati (prima gli antichi e poi i moderni), vi è un ricchissimo indice analitico, che rappresenta uno strumento di consultazione rapido e agevole per quanti si occupano di diminutivi, avverbi in –tim e composti nominali in Apuleio e/o in Plauto: sono proprio queste, infatti, le tre categorie lessicali sulle quali la Pasetti incentra il prorio lavoro di ricerca e sulle quali verte l’intera trattazione.
         L’analisi dei diminutivi in Apuleio occupa il primo capitolo. La studiosa osserva che, mentre in età classica si registra una presenza limitata e sorvegliata di tali lessemi attinti al sermo cotidianus, essi rappresentano invece una peculiarità della lingua d’età arcaica e di quella del periodo arcaizzante. Nel lessico apuleiano, in particolare, i diminutivi si incontrano con elevata frequenza, perché contribuiscono spesso ad instaurare un certo parallelismo lessicale e a stimolare la creatività linguistica dell’autore. Il madaurense, riproponendo lessemi già presenti nella lingua di Plauto, riprende la spiccata propensione del commediografo per l’uso dei diminutivi. A parere della Pasetti «se in alcuni casi la ripresa apuleiana si spiega sulla base di un’affinità contestuale o di un preciso richiamo stilistico […], in altri essa sembra dettata da esigenze puramente formali, legate per lo più alla funzionalità fonica o retorica del significante» (pag. 22).
Successivamente la Pasetti passa in rassegna i diminutivi presenti unicamente in Apuleio e in Plauto, con lo scopo di capire «fino a che punto sopravviva nel testo apuleiano la memoria della loro origine» (pag.14). L’analisi è condotta su breviculus, corculum, dicaculus, formula, hamulus, morsiuncula, pulvisculus/-um, saepicule, scitulus, turbel(l)a, unguiculus.
Segue l’analisi dei diminutivi apuleiani modellati su quelli plautini, vale a dire quelle neoformazioni apuleiane il cui modello plautino non è sempre direttamente recuperabile (in ordine di trattazione: bellule, ampliusculus, posticula, tantillulus, pullulus, palumbulus, mellitulus, unctulum).
L’indagine si sofferma su alcuni diminutivi di origine plautina che «pur non essendo recuperati esclusivamente da Apuleio, risultano comunque interessanti […] in quanto, designando oggetti o personaggi caratteristici sia del romanzo che della commedia, sono rivelatori di uno stretto rapporto tra i due generi» (pag. 27). La trattazione riguarda servolus, sportula, adulescentula, aetatula, diecula, mensula, re(s)cula, uxorcula.
A proposito dei procedimenti adottati da entrambi gli autori nell’uso dei diminutivi che costituiscono un particolare ethos comico, la studiosa parla di «comicismi più che di plautinismi» (pag. 31), poiché Apuleio mutua da Plauto non soltanto i lessemi, ma anche i procedimenti di utilizzo degli stessi, come per esempio il diminutivo continuato e l’enumeratio; molto amati da Apuleio, inoltre, appaiono i diminutivi afferenti al lessico tecnico.
Il ricorso al diminutivo da parte di Apuleio assolve ad una triplice funzione: in primo luogo, conferendo al testo un marcato carattere fonico, esso lo rende simile alla poesia, in secondo luogo, rappresenta una spia del sermo comicus e, in terzo luogo, costituisce l’elemento fondante della Kunstprosa. Tuttavia, a caratterizzare la lingua di Apuleio, accanto ad una marcata ripresa del lessico e dei procedimenti fonico-stilistici di Plauto, concorrono numerose influenze di altri autori arcaici, individuate alle pagg. 36-48.
Al termine del primo capitolo tre tabelle offrono la schedatura in ordine alfabetico dei diminutivi presenti negli opera omnia di Apuleio con le relative occorrenze, le attestazioni dei diminutivi rintracciati in tutte le commedie plautine e una lista dei diminutivi comuni ad entrambi gli autori.
Nel secondo capitolo oggetto di indagine sono gli avverbi in –tim che, intesi come una categoria lessicale a sé stante, costituiscono un ulteriore punto di contatto tra la lingua di Apuleio e quella di Plauto. Tuttavia, prima di procedere ad un’analisi di tipo comparativo tra i due autori è affrontata la questione dell’origine di tali avverbi: si tratta senza dubbio di arcaismi, che proprio in virtù della loro patina arcaica, vengono immancabilmente ripresi dagli autori del periodo arcaizzante. La Pasetti si dedica, quindi, all’analisi di tali lessemi nella lingua di Plauto, distinti in denominativi e deverbali. Tra i denominativi si distinguono quelli di senso distributivo significanti “a pezzi”, “in briciole” (articulatim, assulatim, frustillatim, offatim). Nel sermo plautino «gli avverbi in –tim sono frequentemente inseriti in catene allitteranti, mentre non vengono mai sfruttati fonicamente per la loro terminazione» (pag. 74). Successivamente vengono passati in rassegna gli avverbi in –tim presenti nella lingua apuleiana, tra i quali si annoverano numerose neoformazioni (aggeratim, agminatim, capreolatim, coaceruatim, congestim, cunctim, discretim, fistulatim, laciniatim, granatim). Contrariamente a Plauto, Apuleio sfrutta tali lessemi per creare effetti fonici, aggregandoli frequentemente in coppie omoteleutiche e isosillabiche. I casi di condivisione tra Plauto ed Apuleio degli avverbi in –tim vengono circoscritti a quattro (adfatim, efflictim, examussim e guttatim); tuttavia sono passate in rassegna anche altre tracce del modello plautino, differenti dal semplice recupero di lessemi dalla provenienza indubbia.
Il terzo ed ultimo capitolo del saggio concerne i composti nominali, un tipo di lessema originariamente estraneo alla lingua latina ma ben presente in quella greca.
Segue una breve sezione dedicata ai composti nominali utilizzati da entrambi gli autori, ma attestati anche altrove, e subito dopo oggetto di indagine sono i composti nominali comuni ai due autori e attestati unicamente nelle loro opere (cordolium e opiparus). L’attenzione si sposta, quindi, sulle forme peculiari della dictio comica adoperate da Apuleio (morigerus, furcifer, sacrilegus e versipellis); infine, vengono passate in rassegna le neoformazioni apuleiane ispirate a modelli plautini e si procede all’analisi dei composti che Apuleio attinge dalla Dichtersprache.
Le pagg. 136-147 sono occupate da riflessioni di carattere conclusivo in merito alle analogie e alle differenze nell’utilizzo dei composti nominali in Plauto e in Apuleio. Il materiale raccolto viene organizzato in due tabelle di occorrenze: la prima include i composti nominali reperiti nelle opere apuleiane, la seconda quelli rintracciati nel tessuto linguistico delle commedie plautine.
Le conclusioni generali (pagg. 159-163), oltre a ribadire i criteri metodologici adottati, sintetizzano gli obiettivi raggiunti nel corso della ricerca: dall’analisi comparativa della lingua di Apuleio e Plauto, sulla base delle tre categorie lessicali inizialmente scelte dall’autrice del saggio, sono emersi differenti livelli di fruizione del modello plautino da parte di Apuleio. Il primo livello fruitivo interessa semplicemente la ripresa semantico-lessicale da parte di Apuleio nei confronti di Plauto; il secondo livello riguarda, invece, quei vocaboli che evocano ambienti e situazioni propri della commedia, ma non sono direttamente attestati. Un posto a sé stante occupano i neologismi coniati dal madaurense sui modelli plautini. Ad ogni modo, «un aspetto comune alle diverse modalità di fruizione è […] il privilegio costantemente accordato da Apuleio alla dimensione fono-stilistica» (pag. 160).
Il lavoro della Pasetti, condotto con rigore e metodo, costituisce un tassello importante nella storia degli studi sull’argomento. Infatti, se si eccettua la dissertazione ottocentesca di Desertine [H. Desertine, De Apulei studiis Plautinis, diss. Nymwegen 1898], che affronta la questione dei rapporti linguistici tra Apuleio e Plauto, ma si risolve in una mera schedatura di lessemi decontestualizzati, e si escludono il lavoro di Callebat [L. Callebat, Sermo cotidianus dans les Métamorphoses d’Apulée, Caën 1968] e  pochissimi studi inerenti all’influsso degli arcaismi plautini sull’opera apuleiana (pag. 9), non molto si è detto sul complesso rapporto tra Apuleio e Plauto. Alla Pasetti va riconosciuto soprattutto il merito di essere andata oltre la ricerca delle semplici riprese linguistiche di Plauto da parte di Apuleio: la studiosa mette in luce negli scritti di Apuleio il recupero dell’ethos comico plautino e vi rintraccia i complicati rapporti allusivi con l’opera di Plauto.

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