mercoledì 25 luglio 2012

Fusilli alla crema di carote e prosciutto cotto

Eccoci qua! Dopo numerosi post dedicati alla moda, alla letteratura e allo stile, oggi voglio fissare nero su bianco una semplicissima ricetta per un primo piatto gustoso e leggero...

Prendete 3 carote medio-grandi e, dopo averle mondate e lavate, grattuggiatele a mo' di julienne. Una volta compiuta questa semplice operazione, in una casseruola versate dell'acqua per un terzo del suo volume: ora versate all'interno le carote e lessatele per mezz'ora. Una volta che le carotine saranno ben cotte, prelevatele con un mestolo bucato e mettetele in un piatto fondo.
Nel frattempo, in un'altra casseruola, anche piccola, versate 2 cucchiai di olio di oliva e fatelo scaldare per qualche secondo, versate nell'olio bollente il misto per soffritto (cipolla, sedano e carotina) e fate rosolare per 2 minuti con la fiamma al minimo. A questo punto versate nel soffritto le carotine lesse e aggiungete un terzo di un bicchiere di brodo vegetale, già salato. Fate insaporire tutto per 10 minuti. Adesso, dopo aver controllato che un po' di brodo sia evaporato, doveste utilizzare il mini-pimer (il centrifugatore ad immersione) e trasformare le carotine in una gustosa crema vegetariana. Lessate i fusilli e tirateli fuori al dente: ora spadellateli nella crema finché sono completamente mantecati, aggiungendo dei dadini di prosciutto cotto e una spruzzata di formaggio parmigiano. Continuate a mantecare e servite con una spolverata di prezzemolo tritato ed erba cipolllina.

Buon appetito!

martedì 24 luglio 2012

TuttoDante 2012

Un grande Roberto Benigni, una bellissima cornice architettonica - quella della piazza di Santa Croce, in cui campeggia la statua di Dante Alighieri - e le terzine del Sommo Poeta. Tre ingredienti affinché la ricetta riesca nel migliore dei modi. 

Una lettura dell'Inferno dantesco colta e semplice al tempo stesso, preceduta da mezz'ora di satira politica e sociale con un occhio sempre rivolto ai tempi in cui Dante è vissuto: ne emerge un contrasto stridente, a detrimento della società attuale. L'arditezza linguistica, la precisione semantica, le vette poetiche sono rese e tradotte da Benigni in maniera encomiabile. Grazie a lui Dante può essere compreso veramente da tutti, uscendo fuori dalle Accademie, senza che mai vengano sacrificate la precisione esegetica e la ricostruzione del contesto. 

Per finire, la recita dell'intero canto da parte dell'artista restituisce le intricate pieghe dell'animo dei dannati con finezza interpretativa e straordinaria empatia. 

Un grazie infinito a Roberto Benigni, grande uomo, ancor prima che immenso artista. 

lunedì 23 luglio 2012

Vacanze e diario di viaggio



Giugno, luglio e agosto sono mesi deputati alle vacanze. Milioni di persone si spostano dalle loro case per raggiungere le località in cui hanno scelto di trascorrere le proprie ferie. Crisi o non crisi, il movimento migratorio c’è sempre, talora più intenso e massiccio, talaltra meno.
Quelli della vacanza sono giorni sognati da molti per un anno intero, giorni in cui si può frapporre una distanza anche mentale tra se stessi e la routine… giorni spesso fatti di riposo, divertimento, svago, avventura, conoscenza di cose nuove, cultura… ognuno modella la propria vacanza in base alle proprie esigenze ed aspettative.
Per conservare intatto e vivido anche a distanza di anni il ricordo di una vacanza,  vi consiglio di tenere un DIARIO DI VIAGGIO, sul quale appuntare tutto, ma proprio tutto quello che fate e vi accade, oppure solo le cose più importanti, belle ed emozionanti: una sorta di memorandum da sfogliare e risfogliare nei momenti di stress, stanchezza e sconforto quando si torna alla vita lavorativa e alle piccole e grandi difficoltà quotidiane.
Una belle idea? Ma sì!!! Dai, munitevi di un taccuino, una penna e un po’ di costanza e il gioco è fatto!!!

venerdì 20 luglio 2012

Scegliere la Letteratura come percorso di vita - Parte I



Ho deciso di scrivere. Sì, scriverò la storia della mia passione per la letteratura. Vi racconterò anche della ricerca di un lavoro, che è poi la ricerca di un percorso di vita. Uno dei tanti possibili.

Vi ricordate quel film di qualche anno fa, Sliding doors? Immagino che  a molti di voi sarà noto…  ci pensate spesso, vero, al fatto che, nel bene e nel male, ogni scelta si ripercuote sul percorso della nostra vita?

Torniamo subito a me. Nel 1999, conseguito il diploma di maturità classica, scelsi di iscrivermi alla facoltà di Lettere. Non sapevo nulla altro, se non che amavo leggere e analizzare i testi letterari. Ah, un’altra cosa la sapevo: mi attraeva spiegare agli altri il contenuto dei testi e le impressioni che ricavavo dalla loro lettura. Queste poche, ma ferree convinzioni mi sembravano un buon inizio per intraprendere la carriera del Letterato!

Da romantica appassionata e passionale quale sono, scrivevo anche poesie. Ancora adesso, sia chiaro, mi piace farlo, benché l’ardore adolescenziale, svanendo con l’età, si sia trascinato dietro la massima parte dell’ispirazione poetica. Con la poesia liberavo tra le righe quelle parole che restavano imbrigliate nelle pieghe del mio animo e permettevo loro di spiegarsi e di mostrarmi, completamente vera, inequivocabilmente nuda. La poesia mi consente sempre di vedere me stessa e gli altri sotto una luce diversa. Ha il potere di scandagliare anche i più remoti recessi dell’io, anche quelli di cui ignoriamo l’esistenza. Scriviamo non quello che mostriamo o pensiamo di essere, ma quello che siamo davvero. Quelle parole che sgorgano dalla nostra biro sono un surrogato del nostro cuore, del nostro intelletto, del nostro vissuto. Siamo un'unica cosa, noi e loro.

Insieme alla passione poetica, ne coltivavo un’altra, diversa ma simile, a ben guardare. Ero attratta irresistibilmente dalle note esplicative nei testi  scolastici che antologizzavano brani tratti da opere della classicità latina e greca. In quel periodo della mia esistenza pensavo che avrei lavorato in una casa editrice e sarei stata una di quelle Entità, vaghe, indefinite, irraggiungibili, che per mestiere scrivono le note nei testi di scuola… sogni di adolescente, non c’è dubbio. Eppure in quelle adolescenziali velleità, mescolate ad un fervore puro e incontaminato da riflessioni utilitaristiche ed economicistiche, trovai la chiave per decidere il mio futuro.

Oggi sono passati 14 anni e non rimpiango, né mai rimpiangerò, la scelta fatta quando di anni ne avevo solo 18. E come potrei, se al solo sentire parlare di libri, romanzi, poesie mi sento pervadere da una strana euforia? Penso sia un misto di gioia estatica, rapimento arrendevole e smisurato orgoglio. Vi chiederete perché, forse, o più probabilmente penserete che sono un’esaltata… se avrete la pazienza di leggere ancora un po’, cercherò di spiegarvi meglio.  

Avete presente i brividi e la sensazione di avere la pelle increspata? Beh, quando mi trovo a leggere qualcosa di veramente speciale, qualcosa che riesce a toccare le corde più profonde del cuore, qualcosa che fa piangere, ridere e non solo, allora mi si increspa la pelle e mi sento così intimamente felice ed appagata, che mi sembra di avere aggiunto un tassello fondamentale nella costruzione della mia esistenza.
Eppure non sono molte le opere che riescono a penetrare ed impregnare le coscienze fino a questo punto. Quelle poche io le chiamo Capolavori e, in barba alla grammatica, lo scrivo con la C maiuscola.
Quanti libri avrò letto dai 6 anni fino ad ora che di anni ne ho 3-(no, non ve lo dico!!!)? Mah, chi lo sa, non li ho mai contati… ricordo benissimo, invece, quali sono quelli che mi hanno segnata, formata e trasformata, fin dalla radice del mio Essere. Tutto ciò che leggiamo, a pensarci, svolge nella vita una qualche funzione: le riviste di moda, quelle di attualità, i romanzi di avventura, i racconti noir, i romazi gialli, quelli rosa… e chi più ne ha, più ne metta, certo! Solo pochi, però, sono gli scritti che diventano parte di noi.
Oggi i ringraziamenti, le lamentele e le recriminazioni per quello che sono, non li rivolgo solamente ai miei genitori, ma anche a Verga, Leopardi, Stendhal, Pirandello, Catullo, Properzio, Pascoli, Baricco, Omero, Flaubert, Virgilio, Prevért, Euripide, Seneca, Petrarca, Svevo, De Amicis, Alcott… (l’elenco sarebbe troppo lungo e non voglio annoiarvi!)… questi signori, proprio come i miei genitori, mi hanno svezzata, educata, mi hanno istruito, pur senza volerlo esplicitamente. Quest’ultimo concetto lo ritengo fondamentale. Loro non volevano istruirmi, ma lo hanno fatto. Loro non erano formalmente miei docenti, eppure mi hanno insegnato tantissime cose…

… e sull’onda di quella euforia e di quelle sensazioni che provo quando leggo qualcosa di “speciale” e che ho cercato malamente di rendere a parole, un decennio fa (e forse ancor prima) decisi di votare il mio futuro alle Lettere…

Poesie d'amore 2


Dolcezza

Chiara e luminosa di inverno,
morbida e dorata per il sole estivo,
la tua pelle è un abbraccio caldo
nel mio gelo.
Rifugio, porto sicuro.
La mia fronte
sulla tua guancia.
Si placano i venti.

Poesie d'amore 1

Ci sei 


Ci sei,
segno indelebile nella mia esistenza,
a scandire i miei giorni,
con discrezione infinita,
con un abbraccio accogliente,
largo,
profondo.

Recensione a Lucia Pasetti, Plauto in Apuleio, Pàtron editore, Bologna 2007, pp. 227.





Il lavoro della Pasetti, che è una rielaborazione della sua tesi di dottorato, va ad arricchire il catalogo della prestigiosa collana diretta da Alfonso Traina Testi e manuali per l’insegnamento universitario del latino.
         Oggetto dell’indagine sono gli echi plautini nel lessico e nello stile di Apuleio: si tratta di una questione che affonda le proprie radici nell’età umanistica, quando Plauto ed Apuleio erano sistematicamente studiati in maniera comparativa e non di rado il testo del sarsinate veniva usato per sanare alcuni guasti in quello del madaurense.   
         Il saggio si apre con un’introduzione sintetica ma ben argomentata (pagg. 7-10), nella quale si dà conto della materia trattata, della storia degli studi, della metodologia di ricerca adottata e, naturalmente, delle finalità scientifiche perseguite. Fanno seguito tre sostanziosi capitoli, che costituiscono il corpo centrale del saggio, al termine dei quali una bibliografia ricca ed aggiornata offre un valido sussidio a quanti vogliano intraprendere ricerche di carattere linguistico-stilistico su Apuleio e Plauto. Molto utile è anche l’ultima sezione del saggio, riservata agli indici: accanto a quelli degli autori citati (prima gli antichi e poi i moderni), vi è un ricchissimo indice analitico, che rappresenta uno strumento di consultazione rapido e agevole per quanti si occupano di diminutivi, avverbi in –tim e composti nominali in Apuleio e/o in Plauto: sono proprio queste, infatti, le tre categorie lessicali sulle quali la Pasetti incentra il prorio lavoro di ricerca e sulle quali verte l’intera trattazione.
         L’analisi dei diminutivi in Apuleio occupa il primo capitolo. La studiosa osserva che, mentre in età classica si registra una presenza limitata e sorvegliata di tali lessemi attinti al sermo cotidianus, essi rappresentano invece una peculiarità della lingua d’età arcaica e di quella del periodo arcaizzante. Nel lessico apuleiano, in particolare, i diminutivi si incontrano con elevata frequenza, perché contribuiscono spesso ad instaurare un certo parallelismo lessicale e a stimolare la creatività linguistica dell’autore. Il madaurense, riproponendo lessemi già presenti nella lingua di Plauto, riprende la spiccata propensione del commediografo per l’uso dei diminutivi. A parere della Pasetti «se in alcuni casi la ripresa apuleiana si spiega sulla base di un’affinità contestuale o di un preciso richiamo stilistico […], in altri essa sembra dettata da esigenze puramente formali, legate per lo più alla funzionalità fonica o retorica del significante» (pag. 22).
Successivamente la Pasetti passa in rassegna i diminutivi presenti unicamente in Apuleio e in Plauto, con lo scopo di capire «fino a che punto sopravviva nel testo apuleiano la memoria della loro origine» (pag.14). L’analisi è condotta su breviculus, corculum, dicaculus, formula, hamulus, morsiuncula, pulvisculus/-um, saepicule, scitulus, turbel(l)a, unguiculus.
Segue l’analisi dei diminutivi apuleiani modellati su quelli plautini, vale a dire quelle neoformazioni apuleiane il cui modello plautino non è sempre direttamente recuperabile (in ordine di trattazione: bellule, ampliusculus, posticula, tantillulus, pullulus, palumbulus, mellitulus, unctulum).
L’indagine si sofferma su alcuni diminutivi di origine plautina che «pur non essendo recuperati esclusivamente da Apuleio, risultano comunque interessanti […] in quanto, designando oggetti o personaggi caratteristici sia del romanzo che della commedia, sono rivelatori di uno stretto rapporto tra i due generi» (pag. 27). La trattazione riguarda servolus, sportula, adulescentula, aetatula, diecula, mensula, re(s)cula, uxorcula.
A proposito dei procedimenti adottati da entrambi gli autori nell’uso dei diminutivi che costituiscono un particolare ethos comico, la studiosa parla di «comicismi più che di plautinismi» (pag. 31), poiché Apuleio mutua da Plauto non soltanto i lessemi, ma anche i procedimenti di utilizzo degli stessi, come per esempio il diminutivo continuato e l’enumeratio; molto amati da Apuleio, inoltre, appaiono i diminutivi afferenti al lessico tecnico.
Il ricorso al diminutivo da parte di Apuleio assolve ad una triplice funzione: in primo luogo, conferendo al testo un marcato carattere fonico, esso lo rende simile alla poesia, in secondo luogo, rappresenta una spia del sermo comicus e, in terzo luogo, costituisce l’elemento fondante della Kunstprosa. Tuttavia, a caratterizzare la lingua di Apuleio, accanto ad una marcata ripresa del lessico e dei procedimenti fonico-stilistici di Plauto, concorrono numerose influenze di altri autori arcaici, individuate alle pagg. 36-48.
Al termine del primo capitolo tre tabelle offrono la schedatura in ordine alfabetico dei diminutivi presenti negli opera omnia di Apuleio con le relative occorrenze, le attestazioni dei diminutivi rintracciati in tutte le commedie plautine e una lista dei diminutivi comuni ad entrambi gli autori.
Nel secondo capitolo oggetto di indagine sono gli avverbi in –tim che, intesi come una categoria lessicale a sé stante, costituiscono un ulteriore punto di contatto tra la lingua di Apuleio e quella di Plauto. Tuttavia, prima di procedere ad un’analisi di tipo comparativo tra i due autori è affrontata la questione dell’origine di tali avverbi: si tratta senza dubbio di arcaismi, che proprio in virtù della loro patina arcaica, vengono immancabilmente ripresi dagli autori del periodo arcaizzante. La Pasetti si dedica, quindi, all’analisi di tali lessemi nella lingua di Plauto, distinti in denominativi e deverbali. Tra i denominativi si distinguono quelli di senso distributivo significanti “a pezzi”, “in briciole” (articulatim, assulatim, frustillatim, offatim). Nel sermo plautino «gli avverbi in –tim sono frequentemente inseriti in catene allitteranti, mentre non vengono mai sfruttati fonicamente per la loro terminazione» (pag. 74). Successivamente vengono passati in rassegna gli avverbi in –tim presenti nella lingua apuleiana, tra i quali si annoverano numerose neoformazioni (aggeratim, agminatim, capreolatim, coaceruatim, congestim, cunctim, discretim, fistulatim, laciniatim, granatim). Contrariamente a Plauto, Apuleio sfrutta tali lessemi per creare effetti fonici, aggregandoli frequentemente in coppie omoteleutiche e isosillabiche. I casi di condivisione tra Plauto ed Apuleio degli avverbi in –tim vengono circoscritti a quattro (adfatim, efflictim, examussim e guttatim); tuttavia sono passate in rassegna anche altre tracce del modello plautino, differenti dal semplice recupero di lessemi dalla provenienza indubbia.
Il terzo ed ultimo capitolo del saggio concerne i composti nominali, un tipo di lessema originariamente estraneo alla lingua latina ma ben presente in quella greca.
Segue una breve sezione dedicata ai composti nominali utilizzati da entrambi gli autori, ma attestati anche altrove, e subito dopo oggetto di indagine sono i composti nominali comuni ai due autori e attestati unicamente nelle loro opere (cordolium e opiparus). L’attenzione si sposta, quindi, sulle forme peculiari della dictio comica adoperate da Apuleio (morigerus, furcifer, sacrilegus e versipellis); infine, vengono passate in rassegna le neoformazioni apuleiane ispirate a modelli plautini e si procede all’analisi dei composti che Apuleio attinge dalla Dichtersprache.
Le pagg. 136-147 sono occupate da riflessioni di carattere conclusivo in merito alle analogie e alle differenze nell’utilizzo dei composti nominali in Plauto e in Apuleio. Il materiale raccolto viene organizzato in due tabelle di occorrenze: la prima include i composti nominali reperiti nelle opere apuleiane, la seconda quelli rintracciati nel tessuto linguistico delle commedie plautine.
Le conclusioni generali (pagg. 159-163), oltre a ribadire i criteri metodologici adottati, sintetizzano gli obiettivi raggiunti nel corso della ricerca: dall’analisi comparativa della lingua di Apuleio e Plauto, sulla base delle tre categorie lessicali inizialmente scelte dall’autrice del saggio, sono emersi differenti livelli di fruizione del modello plautino da parte di Apuleio. Il primo livello fruitivo interessa semplicemente la ripresa semantico-lessicale da parte di Apuleio nei confronti di Plauto; il secondo livello riguarda, invece, quei vocaboli che evocano ambienti e situazioni propri della commedia, ma non sono direttamente attestati. Un posto a sé stante occupano i neologismi coniati dal madaurense sui modelli plautini. Ad ogni modo, «un aspetto comune alle diverse modalità di fruizione è […] il privilegio costantemente accordato da Apuleio alla dimensione fono-stilistica» (pag. 160).
Il lavoro della Pasetti, condotto con rigore e metodo, costituisce un tassello importante nella storia degli studi sull’argomento. Infatti, se si eccettua la dissertazione ottocentesca di Desertine [H. Desertine, De Apulei studiis Plautinis, diss. Nymwegen 1898], che affronta la questione dei rapporti linguistici tra Apuleio e Plauto, ma si risolve in una mera schedatura di lessemi decontestualizzati, e si escludono il lavoro di Callebat [L. Callebat, Sermo cotidianus dans les Métamorphoses d’Apulée, Caën 1968] e  pochissimi studi inerenti all’influsso degli arcaismi plautini sull’opera apuleiana (pag. 9), non molto si è detto sul complesso rapporto tra Apuleio e Plauto. Alla Pasetti va riconosciuto soprattutto il merito di essere andata oltre la ricerca delle semplici riprese linguistiche di Plauto da parte di Apuleio: la studiosa mette in luce negli scritti di Apuleio il recupero dell’ethos comico plautino e vi rintraccia i complicati rapporti allusivi con l’opera di Plauto.

giovedì 19 luglio 2012

Recensione al film UN GIOCO DA RAGAZZE

Un gioco da ragazze è un film drammatico coprodotto dalla Colorado e dalla Rai e distribuito dalla 01 Distribution nel 2008 e vede alla regia un esordiente Matteo Rovere. Gli attori protagonisti sono Chiara Chiti nel ruolo della studentessa di liceo Elena Chiantini e Filippo Nigro, in quello del Professore di Lettere Mario Landi. 

Una studentessa e un professore. Belli. Entrambi. La Chiti è una giovane esordiente, bruna, tenebrosa, ma dai lineamenti delicati; Nigro è l'ormai noto attore dagli occhi di ghiaccio e dal fisico scolpito. Non è una storia d'amore. Si può parlare di non amore. Ma perchè il titolo parla di un gioco? Il gioco è quello di Elena e di due sue amiche e compagne di classe in un liceo privato in cui gli studenti portano la divisa che richiama tanto i british colleges. Si tratta di un gioco perverso, pericoloso, che le vede ciniche e superficiali ai limiti dell'immaginabile. Feste alcoliche, rave parties, shopping di lusso, famiglie assenti, ma ricchissime e sempre pronte a coprire e giustificare le bravate delle loro rampolle. A scuola Elena e le sue seguaci si rendono protagoniste di episodi di bullismo, di un bullismo che si sostanzia di violenza psicologica, ancor prima che verbale. Le relazioni di coppia per le ragazze, specie per Elena, sono solo sesso, ai limiti del proibito. Per affermare il proprio predominio sulle altre, Elena è pronta ad usarle, manipolarle, schiacciarle. L'unico essere per cui la ragazza pare provare dell'affetto è il suo cane Titti. Elena è sola. Infelice. Si sente cattiva e impersona fino in fondo il suo ruolo, anche se arriva il nuovo docente di Lettere, idealista e profondamente convinto che l'insegnamento sia una missione, a dirle che non è cattiva, benché si sforzi di sembrarlo. Elena non lo sopporta. In realtà per un attimo crediamo che se ne sia innamorata. Ma l'abisso della sua anima è immenso, forse incolambile. Con le sue amiche Elena organizza un gioco ai danni di Mario Landi. Questo gioco si rivelerà inaspettatamente fatale. Non vi sveliamo perché e per chi fatale: guardate il film, il cui epilogo lascia un senso di sgomento, misto ad una sensazione di impotenza ed inutilità. 

Anima gemella? Sfatare il mito o cercare la nostra?

Quante volte abbiamo sentito parlare di "anima gemella"? Tante, tantissime, forse troppe volte.
Cosa si intende per anima gemella? Un nostro alter ego, che ci faccia da specchio e che ci assecondi in tutto quello che facciamo? O per anima gemella si intende una persona che abbia la nostra stessa sensibilità e un modo affine al nostro (affine e non uguale) di vedere la realtà?


Domande frequenti, diremmo ataviche e attuali al contempo. 


Spesso rincorriamo qualcuno che abbiamo idealmente tratteggiato nella nostra mente, senza renderci conto che l'idea non corrisponde alla realtà. Spesso, quindi, per rincorrere un'idea, ignoriamo la realtà. L'idea resta fissa ed immutata - pericolosamente cristallizzata - nella nostra mente, mentre la realtà si evolve e purtroppo, spesso, ci sfugge. Sfugge a noi, troppo impegnati nella folle corsa.


Salvo scoprire che forse possiamo fermarci e guardare, guardarci intorno. Forse la realtà che ci circonda non è poi così spiacevole o banale. E le persone di cui la realtà si sostanzia sono certo imperfette, ma di sicuro vere. Smettiamola di protendere le braccia per stringere un simulacro vano. La realtà è fatta di persone concrete e non di idee antropomorfe. 

In spiaggia NO al cattivo gusto! Cose da NON fare sotto l’ombrellone




Siamo a metà luglio e oltre. È tempo di vacanze e, per molti, di mare (più o meno) blu, spiagge affollate e creme solari… Purtroppo, però, spesso ci si imbatte in comportamenti altrui fastidiosi o ci si rende personalmente protagonisti di situazioni imbarazzanti e poco eleganti. Stiamo parlando di tutti quei comportamenti che si verificano in spiaggia e che di certo non sono del tutto auspicabili e, men che meno, piacevoli!

Vediamone alcuni tra i più tipici:
  • ·      camminare tra gli ombrelloni sollevando sabbia;
  • ·     parlare ad alta voce o gridare, disturbando chi, magari, vorrebbe leggere in pace o schiacciare un pisolino;
  • ·      sollevare da terra il proprio telo da mare e scuoterne via tutta la sabbia, con la grazia di un elefante;
  • ·      rimproverare i propri figli assumendo atteggiamenti plateali degni di un melodramma;
  • ·      gettare cartacce ed altri rifiuti sulla spiaggia;
  • ·      far costruire ai propri figli castelli di sabbia proprio dove la gente vorrebbe poter passare;
  • ·  “rubare” con i propri lettini o con le proprie sedie l’ombra altrui, cioè quellla proiettata dall’ombrellone del vicino;
  • ·      andare al lido con un costume succinto e bagnato (esistono i copri-costume);
  • ·      liberare tra gli ombrelloni bambini impazziti muniti di fucili ad acqua;
  • ·      banchettare in spiaggia, come si fosse al cenone della Vigilia di Natale;
  • ·  tenere al cellulare suonerie moleste ad altissimo volume: se lo facessero tutti, la spiaggia si trasformerebbe in breve in una discoteca;
  • ·      trasformare uno slip normale in un perizoma con ardite manovre e con le chiappe al vento;
  • ·      spruzzare la propria crema solare sul vicino di ombrellone: gli spray vanno direzionati nel verso giusto!



Alcuni di questi comportamenti, ben noti, ci fanno sorridere, altri ci infastidiscono, altri ancora ci fanno storcere la bocca perché a tutto c’è un limite! Stop a chiappe oleose a stento coperte da mutande malamente infilate proprio là dove non batte il sole!!!

RECENSIONE a Carmelo Salemme, Il canto del Golfo. Le Eclogae piscatoriae di Iacopo Sannazaro, in Studi Latini, Loffredo editore, Napoli 2007


Carmelo Salemme, Il canto del Golfo. Le Eclogae piscatoriae di Iacopo Sannazaro, in Studi Latini, Loffredo editore, Napoli 2007, pp. 108.



Oggetto del saggio di Carmelo Salemme sono le cinque Eclogae piscatoriae di Iacopo Sannazaro: si tratta di componimenti lirici in latino modellati sulla poesia bucolica tradizionale, che hanno un’ambientazione marina, quella del Golfo di Napoli, e propongono uno scorcio della vita dei pescatori. Salemme ne individua i modelli letterari di riferimento negli Idilli di Teocrito e nelle Bucoliche di Virgilio e mette in rilievo il ruolo protagonistico in essi svolto dal Golfo di Napoli. Lo studioso evidenzia come al tessuto lirico si intreccino con naturalezza ed eleganza riferimenti dotti ed eruditi e rileva gli ampi spazi che il Sannazaro riserva alle vicissitudini della dinastia aragonese: in essi si scorge non soltanto un intento celebrativo, ma vi è piena «coscienza di una crisi storica» (pag. 8), di un radicale cambiamento sociale e politico ormai ineluttabile.
Il saggio di Salemme si articola in cinque capitoli, uno per ciascuna ecloga.
Il primo capitolo, dal titolo Il canto del Golfo. La I Piscatoria, si incentra soprattutto sulla descrizione della natura del golfo di Napoli, trasfigurata mediante il filtro della memoria, della letteratura e dell’immaginario poetico.
Nell’analisi della sezione iniziale del componimento, quella dedicata al compianto di Fillide da parte del pescatore Licida, condiviso dalla natura tutta, lo studioso mette in evidenza il debito dell’umanista napoletano nei confronti di Teocrito (Id. 1,71-75) prima, e di Virgilio (Buc. 5,27-28) poi, in merito al motivo della compartecipazione della natura al dolore umano. Inoltre, Salemme, accanto alla presenza di questi due macro-modelli, scorge suggestivi echi del poema didascalico di Virgilio, le Georgiche, del romanzo pastorale che lo stesso Sannazaro compose in età giovanile, l’Arcadia, in particolare della XII Ecloga, e, quindi indirettamente, della Lepidina del Pontano.
Il secondo motivo sviluppato dal Sannazaro nella I Piscatoria, di cui Salemme individua il modello privilegiato nella XII Ecloga dell’Arcadia (vv. 115-117), è l’attrazione che il disperato Licida prova nei confronti della morte, identificata con le profondità del mare in tempesta, in cui il piscator desidera confondersi alle schiere di Tritoni, ai branchi di balene e alle foche dal corpo deforme (vv. 72-76).
Il secondo capitolo del saggio, dal titolo Antico e nuovo nella II Piscatoria, mette in evidenza i molteplici debiti del Sannazaro nei confronti della II Bucolica accanto ai pur numerosi elementi di innovazione. A pag. 29 la II Piscatoria è definita come «un canto d’amore immerso nella cornice del Golfo»: si tratta del canto che il pescatore Licone effonde per l’amata Galatea dai meandri di una grotta, facendolo risuonare per l’intero golfo tutta la notte fino allo spuntare del sole. Il canto d’amore di Licone è molto simile a quello che nella II Bucolica il pastore Coridone innalza come omaggio all’amato Alessi, mentre vaga per monti e selve in un assolato pomeriggio d’estate. Forte nel Sannazaro è il contrasto tra la quiete notturna e la sofferenza interiore di Licone, un contrasto che affonda le sue radici in un frammento di Alcmane (89 P.) e nel II Idillio di Teocrito (vv. 33-35), oltreché nel sommo poema virgiliano, laddove il profondo silenzio e l’estrema tranquillità della natura stridono fortemente con lo stato d’animo di Didone, ormai prossima al suicidio (Aen. 4,522-528).
I doni che Licone offre a Galatea sono i frutti del mare, cioè ostriche, ricci di mare, murici (vv. 30-38), cui aggiunge della morbida lana, più soffice della schiuma del mare (vv. 39-46): essi sono la riproposizione cum variatione dei doni che Coridone vorrebbe offrire ad Alessi (Buc. 2,40-55). Se è vero che il particolare della soffice lana trova il suo antecedente in Teocrito (Id. 5,50 e 15,125), è anche vero che esso allude inequivocabilmente al Virgilio bucolico (2,36-38). Sannazaro, infatti, presentando questo speciale dono fatto al pescatore Licone dal pastore Meliseo come un riconoscimento per avere pionieristicamente diffuso il canto lirico sul litorale napoletano, rinvia alla zampogna a sette canne di virgiliana memoria, donata a Coridone dal pastore Dameta come simbolo del perpetuarsi della tradizione lirica pastorale.
Salemme, tuttavia, per quanto riguarda gli ipotesti letterari della II Piscatoria, segnala accanto al macro-modello della II Bucolica anche la X (vv. 64-69), relativamente al motivo dei lunghi viaggi che gli innamorati delusi intraprendono per obliare l’amore perduto, e gli         Idilli VI e XI di Teocrito, per quanto riguarda la figura di Galatea, la ninfa di cui è perdutamente innamorato Polifemo.
Il terzo capitolo, Unità e interpretazione della III Piscatoria, punta l’attenzione in primo luogo sullo sfondo naturalistico della narrazione (un desolato golfo di Napoli, le cui grotte vengono continuamente sferzate dal mare burrascoso), e in secondo luogo sul macro-modello letterario sotteso al componimento, che a parere dello studioso è la VII Bucolica, benché rispetto ad essa la piscatoria abbia una struttura di gran lunga più complessa. A pag. 43 Salemme afferma che, per lo meno apparentemente, ci si trova « di fronte ad un componimento […] del tutto carente di unità poetica e fantastica», in quanto vi si possono individuare tre sezioni molto diverse e poco interrelate: la prima (vv. 1-36) esprime l’inconsolabile tristezza del Sannazaro per l’esilio di Federico di Aragona ed è caratterizzata da un realismo descrittivo di matrice teocritea; la seconda (vv. 37-93) consiste in un lungo canto d’amore amebeo tra Iola e Cromi; la terza (vv. 94-101) rappresenta, infine, la conclusione del componimento. Sono soprattutto le prime due sezioni ad apparire sconnesse ed indipendenti. Tuttavia, poiché nel canto d’amore amebeo vengono elogiati alcuni luoghi del Golfo di Napoli,  a parere di Salemme è proprio il ricordo dei paesaggi partenopei a costituire la cerniera tra la seconda sezione e la prima, in cui predomina la tristezza per l’esilio di Federico. A tal proposito a pag. 58 lo studioso afferma: «il ricordo di Napoli, del Golfo e dei suoi lidi è contrapposto ai lidi lontani dell’esilio. In una struttura nuova ed originale il Sannazaro ha creato un componimento ispirato a una rigorosa, unitaria fantasia poetica.».
La chiusa del componimento (vv. 94-101) è assai originale, in quanto ci si attenderebbe la proclamazione del vincitore della tenzone lirica, come accade nel modello privilegiato della VII Bucolica (vv.69-70): nella piscatoria sannazariana, invece, il primato non è assegnato né a Iola né a Cromi, ma entrambi vengono insigniti di un premio, proprio come nel IX Idillio teocriteo (vv. 22-27).
Alla pag. 62 del quarto capitolo, intitolato La IV Piscatoria: problemi di lettura e interpretazione, Salemme delinea sinteticamente le peculiarità della IV ecloga, affermando che essa è «un’esaltazione mitico-storica di Napoli e del suo golfo nel contesto delle vicende, ormai declinanti, della casa d’Aragona». Egli individua, dunque, i due temi principali del componimento: l’elencazione dei miti attinenti al Golfo e l’elogio delle ricchezze della Napoli aragonese. Dopo una lunga discussione di carattere filologico (pagg. 61-71), lo studioso si sofferma particolarmente sulla chiusa del componimento, i vv. 92-96, che coincide anche con la fine del canto di Proteo, e ne individua forti affinità con i vv. 82-86 della VI Bucolica di Virgilio, laddove si conclude il canto di Sileno. Sannazaro pone la rievocazione dei miti del golfo di Napoli e il “catalogo delle ninfe”, modellato su quello di Verg. Georg. 4,333-351, proprio sulla bocca di Proteo, il pastor liquidi maris (Pisc. 3,62), ossia il cantore del Golfo che ha ormai perso le sue peculiarità strutturali di indovino e trasformista, ben presenti invece in Omero (Od. 4,349-570) e in Virgilio (Georg. 4,387-395). Il suo canto si conclude con la triste immagine dell’esilio e della morte di Federico di Aragona: il silenzio di Proteo è secondo Salemme (pag. 85) il segnale della conclusione di una dinastia e di un’intera epoca.
L’ultima piscatoria è esaminata nel capitolo conclusivo del saggio, dal titolo Il silenzio del Golfo. La V Piscatoria. Come sempre Salemme individua un macro-modello (l’VIII Bucolica virgiliana), cui affianca un modello “minore” (il II Idillio teocriteo). Numerose sono le riprese di Virgilio a livello sia strutturale sia tematico-concettuale. Notevole, a parere di Salemme, è l’innovazione della tematica degli incantesimi e dei filtri magici: essi, menzionati nel canto di Dorila (vv. 21-73), vengono inseriti e soprattutto contestualizzati nello sfondo marino del Golfo di Napoli. La piscatoria si chiude con un non meglio specificato dono di Telgone all’amata Galatea (vv. 113-121): a precisare la natura del dono contribuisce un passo parallelo della VIII Bucolica virgiliana, dove il moriens Damone offre a Nisa l’estremo dono, il sacrificio di se stesso (vv. 59-60). Alla reticenza di Sannazaro sopperisce dunque la chiarezza di Virgilio. «A questo punto – parafrasa Salemme a pag. 98 proprio a ribadire la centralità del Golfo, considerato dal Sannazaro come personaggio attivo e partecipe delle dinamiche narrative - non resta a Tritone che nascondere tra le acque il suo volto ceruleo e al Golfo di chiudersi nel silenzio».
Fuor di dubbio è la mirabile competenza di Carmelo Salemme, il quale unisce ad una solida padronanza dei classici greci, latini e italiani una non comune sensibilità, che lo spinge a scorgere nella finzione poetica gli aspetti più affascinanti e suggestivi della realtà, fedele o trasfigurata che sia.
   

                                                                     

Hair Styling: diamoci un taglio!!!




Che temperature! 
I capelli lunghi e una chioma troppo vaporosa non ci aiutano certo a sentire meno caldo.

Decidete di darci un taglio, nel vero senso dell’espressione! Esistono decine di tagli che possano metter in risalto la vostra femminilità ed il vostro viso.
Sceglietene uno, facendovi consigliare dal vostro parrucchiere di fiducia!


Ad esempio, se avete un viso dolce e abbastanza regolare, potreste optare per un caschetto anni 60, leggermente scalato e con le punte rivolte verso l’alto. Un ciuffo corto e morbido sulla fronte vi donerà fascino ed eleganza.
Di sicuro questo taglio ha il pregio di essere molto pratico: asciugherete i capelli velocemente con l’aiuto di una spazzola termica dal diametro medio e di una piastra per capelli Lcd oppure in ceramica. Il tempo previsto per la piega con questo tipo di taglio e un capello liscio o leggermente mosso è di 20 minuti.