lunedì 10 giugno 2013

Tributo affettuoso a RINO GAETANO


Non c’è nulla da fare. Se un artista è capace di mettermi il buonumore e allo stesso tempo di farmi riflettere ed emozionarmi, è destinato a prendere un posto speciale nel mio cuore. E una volta preso posto, è destinato a non andare più via.  In questi ultimi giorni un posto nel mio cuore lo ha preso Rino Gaetano. Sì, lui, quello de “Il cielo è sempre più blu”, tormentone musicalmenete ballabile e allegro, con un testo forte, impegnato, ma al contempo ironico e scanzonato. Rino Gaetano, quel ragazzo calabrese di umili origini, trapiantato a Roma, che voleva scrivere e cantare le sue canzoni negli anni in cui iniziavano ad affermarsi Dalla, Venditti, De Gregori e Cocciante. Che fatica farsi notare! Senza una lira (a negli anni Settanta c’erano ancora le lire), con una chitarra scordata, i suoi jeans a zampa di elefante e i capelli scuri e ricci, si aggirava nelle stanze del Folkstudio, senza essere molto considerato. Le sue canzoni, scritte da autodidatta, le faceva ascoltare agli amici del bar di Barone, nel quartiere del Monte Sacro, dove abitava con sua madre, suo padre e sua sorella Anna. Per la verità la sua non era una casa molto confortevole: era un po’ angusta, diciamo così, e dalle finestre si vedevano i piedi e le gambe dei passanti! Era la sistemazione del portiere dello stabile, cioè di suo padre, ma ci vivevano in quattro. Allora i genitori pensarono che forse sarebbe stato meglio (per chi?) mandare il piccolo Rino in seminario, dai sacerdoti di Narni, in Umbria: là Rino avrebbe avuto vitto, alloggio e istruzione gratis. Magari, poi, ci scappava pure la “vocazione”, chissà! Valeva la pena provarci, dovettero pensare. Rino venne inviato in collegio. E là pare che non mostrasse una particolare inclinazione né verso lo studio strutturato, né verso la vocazione sacerdotale. Una cosa è certa: gli piaceva tanto scrivere, quasi sempre in rima ed era affascinato dalle personalità di J. Kennedy e M. L. King e si interessava di quello che succedeva nel mondo, fuori dalla cameretta del convitto. Le sue rime giovanili di questo parlavano: del mondo, della gente, dei problemi contemporanei, delle difficoltà della classe operaia, dei diritti calpesati dei più deboli. Un sacerdote, ora molto anziano, il quale lo ebbe come allievo, in un’ intervista, ha detto di Rino che non aveva mai la mente sgombra da pensieri ed era immerso in particolari “ricerche personali”. Questo è evidente, diciamo noi, con il senno del poi. Quando Rino tornò a Roma, a casa, in jeans e maglietta e non in abito talare, la famiglia desiderò che terminasse per lo meno gli studi di scuola superiore e Rino conseguì il diploma da ragioniere. Il padre (buonuomo, terrorizzato dalla povertà) lo avrebbe voluto impiegato di banca. Ma, niente, Rino non ne voleva sapere di uscire la mattina in abito, camicia e cravatta e sedersi dietro uno sportello. C’era il richiamo della chitarrra ed era troppo forte per ignorarlo, più forte delle urla di suo padre e dei pianti di sua madre. Cominciò la sua avventura musicale, proprio da là cominciò, dai suoi quaderni pieni di poesie e scarabocchi e dagli accordi strimpellati in camera. La sua voce era sporca e graffiante, ma sapeva essere anche calda e dolce. Di questo Rino non era consapevole. Anzi, non ci credeva affatto. Ma volle provarci. E per fortuna, diciamo noi, con il famoso senno del poi.

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