Non
c’è nulla da fare. Se un artista è capace di mettermi il buonumore e allo
stesso tempo di farmi riflettere ed emozionarmi, è destinato a prendere un
posto speciale nel mio cuore. E una volta preso posto, è destinato a non andare
più via. In questi ultimi giorni un
posto nel mio cuore lo ha preso Rino Gaetano. Sì, lui, quello de “Il cielo è
sempre più blu”, tormentone musicalmenete ballabile e allegro, con un testo
forte, impegnato, ma al contempo ironico e scanzonato. Rino Gaetano, quel
ragazzo calabrese di umili origini, trapiantato a Roma, che voleva scrivere e
cantare le sue canzoni negli anni in cui iniziavano ad affermarsi Dalla,
Venditti, De Gregori e Cocciante. Che fatica farsi notare! Senza una lira (a
negli anni Settanta c’erano ancora le lire), con una chitarra scordata, i suoi
jeans a zampa di elefante e i capelli scuri e ricci, si aggirava nelle stanze
del Folkstudio, senza essere molto considerato. Le sue canzoni, scritte da
autodidatta, le faceva ascoltare agli amici del bar di Barone, nel quartiere
del Monte Sacro, dove abitava con sua madre, suo padre e sua sorella Anna. Per
la verità la sua non era una casa molto confortevole: era un po’ angusta,
diciamo così, e dalle finestre si vedevano i piedi e le gambe dei passanti! Era
la sistemazione del portiere dello stabile, cioè di suo padre, ma ci vivevano
in quattro. Allora i genitori pensarono che forse sarebbe stato meglio (per
chi?) mandare il piccolo Rino in seminario, dai sacerdoti di Narni, in Umbria:
là Rino avrebbe avuto vitto, alloggio e istruzione gratis. Magari, poi, ci
scappava pure la “vocazione”, chissà! Valeva la pena provarci, dovettero
pensare. Rino venne inviato in collegio. E là pare che non mostrasse una
particolare inclinazione né verso lo studio strutturato, né verso la vocazione
sacerdotale. Una cosa è certa: gli piaceva tanto scrivere, quasi sempre in rima
ed era affascinato dalle personalità di J. Kennedy e M. L. King e si
interessava di quello che succedeva nel mondo, fuori dalla cameretta del
convitto. Le sue rime giovanili di questo parlavano: del mondo, della gente,
dei problemi contemporanei, delle difficoltà della classe operaia, dei diritti
calpesati dei più deboli. Un sacerdote, ora molto anziano, il quale lo ebbe
come allievo, in un’ intervista, ha detto di Rino che non aveva mai la mente
sgombra da pensieri ed era immerso in particolari “ricerche personali”. Questo
è evidente, diciamo noi, con il senno del poi. Quando Rino tornò a Roma, a casa, in jeans e maglietta e non in abito talare, la famiglia desiderò che
terminasse per lo meno gli studi di scuola superiore e Rino conseguì il diploma
da ragioniere. Il padre (buonuomo, terrorizzato dalla povertà) lo avrebbe
voluto impiegato di banca. Ma, niente, Rino non ne voleva sapere di uscire la
mattina in abito, camicia e cravatta e sedersi dietro uno sportello. C’era il
richiamo della chitarrra ed era troppo forte per ignorarlo, più forte delle
urla di suo padre e dei pianti di sua madre. Cominciò la sua avventura
musicale, proprio da là cominciò, dai suoi quaderni pieni di poesie e
scarabocchi e dagli accordi strimpellati in camera. La sua voce era sporca e
graffiante, ma sapeva essere anche calda e dolce. Di questo Rino non era consapevole. Anzi, non ci credeva affatto. Ma volle provarci. E per fortuna, diciamo
noi, con il famoso senno del poi.
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